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  • Federico Durello

Lussuria e Ascesi..Obesità e Anoressia


Scavando un poco dentro, alla ricerca dei perchè... La gola rappresenta un doppio abbruttimento: abbruttimento nella materia e abbruttimento nel possesso. Un uomo materiale ed egoista, simboleggiato dalla forma del corpo che cresce a dismisura, cresce tanto, fino ad assumere la forma di un otre. Quale rimedio sarà mai possibile per quest’uomo smodato, incapace di porre dei freni alla propria volontà e sprofondato nell’origine di tutte le lussurie? Digiuno, ascesi, astinenza, controllo, sacrificio: parole mistiche, parole inorridite di fronte alla carne e al sesso, e tuttavia parole che si comprendono la prima volta proprio in riferimento al bisogno primario del cibo, alla fame. Se la gola è all’origine di ogni lussuria, è anche all’origine di ogni virtù ascetica, perché permette di capire la dialettica tra il bisogno e il limite.

C’è un rapporto diretto tra il divieto, o la dieta, e lo spirito. Lo spirito dice che l’altro da sé è male e questo giustifica ogni digiuno, ogni privazione, motiva ogni condanna e ogni sarcasmo, ogni ironia. Il rapporto tra il cibo, il grasso e la lussuria si traduce socialmente nella derisione e permette di introdurre altrettanto bene la necessità delle astinenze e delle diete. Diete e astinenze, digiuni e autodisciplina si inscrivono subito nel bisogno di riaffermare una supremazia dello spirito. Lo spirito è il luogo della volontà, e la carne il luogo della debolezza. L’uomo-otre lo vedono tutti, e suscita una preziosa ilarità, che permette un codice sociale di disprezzo e di ironia, una messa in colpa morale facilmente giustificata dalla sua mole ingombrante e flaccida. L’immagine suggeritaci da Giotto dell’uomo-otre non è arcaica e sorpassata, perché il «ventre» rimane ancora oggi, con tutto il peso delle imputazioni che non distinguono, «la parte anatomica degli obesi più spesso oggetto di attacchi malvagi, e più disprezzata dagli stessi obesi»

Che dire poi, a livello collettivo, delle proposte punitive provenienti da alcuni governi mondiali come quello statunitense di far entrare il computo del livello di obesità nella media di valutazione degli studenti, o come quello inglese di escludere gli obesi (insieme ai fumatori) dall’accesso ai servizi sanitari pubblici, dati gli alti costi sociali di questi soggetti troppo a rischio con la salute? Malvagità e disprezzo rischiano in questi casi di essere istituiti per legge, e la discriminazione passa dalla cattiveria di una battuta feroce alla negazione della cittadinanza. Soprattutto, si trascura il rapporto tra il cibo e la città, come se tutta la responsabilità del problema dell’obesità nel suo aspetto diffuso, in particolare a livello giovanile, ricadesse soltanto sui comportamenti e sulle volontà individuali. È la città ad essere opulenta, corpulenta, obesa. La città incarna una promessa di benessere diffuso, a portata di mano, che inizia proprio con l’abbondanza di cibo. La città è il luogo della promessa e dell’abbondanza, luogo per eccellenza del cibo a disposizione. Il cibo da mangiare, in un certo senso, è la città stessa. A differenza della campagna, nella città si teme meno la fame. Sembra quasi che la città non possa soffrire la fame. La fine della fame è possibile solo dove l’abbondanza è arrivata. La città sostituisce la dea dell’abbondanza; e nella città si presenta in modo massiccio il problema dell’obesità. Nella città mondiale, globalizzata, si è forse destinati a diventare tutti obesi?

L’obesità riguarda prima di tutto il rapporto con se stessi, perché ritrovarsi obesi non corrisponde del tutto a volersi obesi. Anche se non si ha la possibilità (problemi genetici) o la forza (problemi comportamentali) di correggersi, per motivi che possono essere i più disparati, ci si trova obesi senza volerlo fino in fondo. Assumendo i comportamenti di vita e alimentari della società dei consumi, e fatte salve le predisposizioni genetiche, in un certo senso si vuole essere obesi. E tuttavia non lo si vuole fino in fondo. In quel volere vi è l’indotto di mille altre volontà che rispecchiano lo stile complessivo della convivenza, vi è anche una volontà che vuole poco per volta, con singoli gesti giornalieri, senza calcolare il risultato finale. Diventare obesi non equivale perciò a volersi così, corrisponde piuttosto a uno scoprirsi corpulenti, che è insieme voluto e non voluto. Non voluto soprattutto, nel momento in cui ci si ritrova davvero obesi e additabili anche da se stessi come grassi. Anche nel caso opposto dell’anoressia, con il rifiuto ostinato del cibo, si presenta la lotta di due volontà (sullo sfondo della spinta pressante al consumo), lotta interpretata però di solito sul lato della forza della volontà, anziché della debolezza. L’obesità e l’anoressia catalizzano nell’immaginario le morali alternative ma coesistenti della società dei consumi, un’etica edonistica del consumo, il lasciarsi piacevolmente andare di fronte all’abbondanza dell’offerta, che non coincide per forza con la quantità di cibo assunta, o la ferocia della razionalità e dell’autocontrollo che si tengono a distanza in vista dell’ideale di un corpo snello. Identico principio del godimento di sé.


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